La Enogastronomia

"Ad Côcôna l’è côsta la cansôn: salam, robiole, trifôle e vin bôn”: così si legge in un antico tabellone, oggi posto sul muraglione dell’Asilo, a ricordare la qualità dei prodotti locali che, unitamente al particolare microclima ˗ per il quale è stato attribuito nell’Ottocento al paese l’appellativo di Riviera del Monferrato ˗ sono all’origine della fama di Cocconato come centro turistico. Il filone dell’enogastronomia, sul quale molti comuni puntano oggi come attrattiva turistica, era per Cocconato una realtà fin dal Seicento.


Una ricca serie di lettere del XVII e XVIII secolo conservate nell’Archivio storico comunale, evidenziano come vino, robiole, tartufi ed altri prodotti venissero frequentemente inviati dagli amministratori locali a nobili, autorità e funzionari, per ottenere privilegi e favori. Con qualche botte di buon vino vengono perfino evitate tassazioni e alloggiamenti militari.


Nel 1665 un dono di “bella frutta” viene fatto al governatore di Verrua, mentre l’abate di Vercelli è omaggiato di 40 robiole e di trifole. L’anno successivo, cinquanta dozzine di robiole sono regalate all’imperatrice Margherita d’Austria durante una sua sosta ad Acqui, nel corso di un viaggio nell’Alto Monferrato.  Del vino è inviato nel 1669 a Gabriele di Savoia, per “l’essentione dell’alloggio della mutta dei presidij”. Ancora le robiole sono il dono fatto nel 1676 al procuratore Belletti, contattato per una causa riguardante un certo chierico Serra.


La fama della cucina cocconatese, nata dalla fortunata coincidenza della disponibilità di prodotti provenienti dalle cascine del luogo e dalla presenza di valenti cuochi, in grado di esaltarne le peculiarità, è antica e testimoniata dal fiorire di locande, ristoranti, alberghi, per accogliere la venuta in paese di forestieri, attratti dalle attività commerciali e dal fiorente mercato.


Il prestigio acquisito assume tale eco da attrarre a Cocconato, lontano dalle grandi vie di comunicazione, illustri personaggi, fra cui il principe Umberto di Savoia, del quale si conservano ancor oggi nella saletta (oggi chiamata Saletta del Principe) del ristorante Cannon d’Oro (già attestato negli anni Trenta dell’Ottocento), ricordi e testimonianze di simpatia: S.A.R. venne a Cocconato più volte ed entrò in amicizia con i titolari, Ernesto e Giovanni Petrino, che fornivano anche il vino alla Casa Reale.




La costruzione della ferrovia Asti-Chivasso, inaugurata nel 1912, favorisce lo sviluppo nella zona circostante di attività produttive, oltre agli impianti per la lavorazione della pietra da gesso. A cavallo fra gli anni Venti e gli anni Trenta la produzione vinicola di tipo industriale assume una importanza crescente e non mancano le iniziative promozionali con la partecipazione, ad esempio, alle feste vendemmiali ad Asti con un pittoresco carro sul quale è riprodotta la torre, emblema del paese. Anche in Cocconato viene organizzata, negli stessi anni, una festa dell’uva.


Il miglioramento della rete viabile, unitamente alla ferrovia, contribuisce negli anni Trenta ad accrescere la fama della Riviera del Monferrato come centro turistico.

Nel secondo dopoguerra, la progressiva trasformazione del paese, legata al fenomeno migratorio verso Torino, porta alla disponibilità di case per la villeggiatura e al conseguente sviluppo di una forma di turismo legato ai fine settimana e al periodo estivo, che integra quello giornaliero, attratto dalla immutata fama dei ristoranti locali.


Oltre ai vini, anche la robiola e i salumi diventano specialità cocconatesi sempre più rinomate. Le robiole, sono giudicate dal De Canis quelle di “miglior gusto d’ogni altra che si compra nei circonvicini paesi a cagione soprattutto della qualità delle erbe di cui si notrisce il bestiame e le pecore specialmente”: a metà Ottocento sono esportate “in varie parti del Piemonte ed anche in estere contrade” per un valore annuo di 2000 lire ed a inizio Novecento risultano oggetto di “un considerevole commercio”. Da una produzione a livello prettamente familiare con latte di pecora, si passa negli anni Cinquanta, per iniziativa del caseificio di Osvaldo Veggia, a una produzione di tipo artigianale e con latte vaccino, attività oggi proseguita dal Caseificio Balzi.


Sempre nel corso del secolo scorso, le salumerie locali producono “salcicce e salami che si esportano  in quantità”. Grande notorietà assume, in particolare, il cotechino, ottenuto con una ricetta segreta, tramandata di padre in figlio. Una produzione, quella dei salumi, che prosegue nel segno della tradizione grazie al Salumificio Ferrero.


La vocazione turistica ed enogastronomica della Riviera del Monferrato si consolida negli ultimi decenni, grazie al potenziamento di manifestazioni folkloristiche e culturali e alla dinamicità degli imprenditori locali, capaci di puntare su prodotti di elevata qualità e di allargarne progressivamente il mercato nazionale e internazionale.

La Robiola di Cocconato

La robiola di Coconà, è una delle specialità della Riviera del Monferrato. Prodotta esclusivamente nel comune che le dà il nome, è un formaggio a pasta molle famoso già nel Seicento. Lo testimoniano alcune lettere di quel periodo conservate nell’Archivio storico comunale, con cui governatori, procuratori e alti funzionari ringraziano per le regalie di specialità locali, fra cui le robiole. Con l’omaggio di vino e robiole i cocconatesi riuscirono perfino ad evitare una guerra. Al tipico formaggio il famoso poeta dialettale Nino Costa ha dedicato “La cansson d’la robiola”, musicata dal maestro Vigin Giachino.


In origine la robiola era un formaggio completamente diverso da quello che conosciamo attuale: ancora negli anni Trenta del Novecento veniva prodotta nelle cascine con latte caprino, veniva fatta stagionare a lungo e assumeva così un color giallo paglierino e una certa consistenza.


Il primo a incentivarne la produzione a scopo commerciale, con latte vaccino, fu, all’inizio degli anni Cinquanta del Novecento, Osvaldo Veggia, che gestiva la latteria del paese. Nel 1970, Benito Balzi, arrivato dalle Marche quattro anni prima, rilevò il piccolo caseificio, continuando la produzione della robiola, nonché di burro e altri formaggi. La moglie Maria Gabriella Cruciani gestiva l’annessa latteria di piazza Cavour. In seguito venne costruito il moderno caseificio in strada Foino, oggi gestito dal figlio Marco.

Dal 1998 la robiola è classificata come PAT (Prodotto agroalimentare tradizionale)




LA CASSON D’LA ROBIOLA

(versi di Nino Costa, musica di Vigin Giachino, 1932)

 

Spatarà tra bòsch e vigna

Bel paìs l’è Côcônà

Ch’a s’anquancia ch’as rampigna,

s’na colin del Monfrà.

L’ha ‘n vinet ch’as lassa beive

Ciair e fin e ‘n poch salà

E’n bocon da barba preive:

la robiòla profumà.

La robiòla a l’è fragranta

Lait ëd crava bin gôernà

L’è pi cotia d’la quaià.

L’ha na crosta ‘n po’ crocanta

L’ha na polpa stagionà:

e i mange tuta quanta

s’i na taste na bocà.

L’è piasosa da merenda

L’è n’arsorssa a colassion:

tant l’è bona ai pè ‘dna cioenda

come ‘n taola da padron.

La gradisso i milionari

La decanto i professor

La consiglio jë spessiari

Per guarì dal mal d’amor.

Voi ch’i vive ‘d paciarine

d’acqua tëbbia e d’ pan mastià

lassè perde le meisine

cha v’ambarco al mond dë dlà.

Per jë stomi ‘d pasta fròla

Per le teste dëscentrà

Fè la cura d’la robiòla

D’la robiòla ‘d Côcônà.

L’è mei un mes piasì che sent dësgust

e la robiöla ai pias a tuti i gust

Mësciomla con ël giuss del bon Noè

E la robiòla l’è, ‘n bocon da re.

La Viticoltura

L’agricoltura ha rappresentato nell’arco dei secoli per tutto il territorio collinare piemontese la più importante fonte economica. Un’economia rimasta fino alle soglie del Novecento di tipo chiuso e finalizzata all’autosufficienza, a provvedere ai bisogni primari della popolazione locale. La mancanza di comunicazioni efficaci non permetteva la specializzazione delle colture e il contadino per provvedere al proprio sostentamento coltivava un po’ di tutto: cereali, vigna, prato, bosco, canapa, ecc. La famiglia contadina, in cui il padre rappresentava l’autorità indiscussa, era organizzata in modo gerarchico e ciascun componente aveva il proprio compito e la sua funzione, in base all’età e alle proprie possibilità.


Significativi mutamenti si verificano a partire dalla fine del XVIII secolo, con l’espansione della vite e delle colture cerealicole, a fronte di una progressiva riduzione di boschi  e dei pascoli e gerbidi. Alla fine dell’Ottocento l’aumento della piccola proprietà coltivatrice e lo sviluppo della rete stradale favorisce un ulteriore espansione della vite (che ha come conseguenza anche una significativa trasformazione a livello paesaggistico), spesso coltivata in forma promiscua, e l’aumento del bestiame bovino, sia come forza lavoro che per la produzione di latte e carne, nonché la nascita di attività collaterali, quali la bachicoltura e la canapicoltura. Accanto ai “particolari” (i proprietari della cascina in cui lavorano) vi è una significativa presenza di fittavoli e mezzadri (molti dei quali immigrati, specie dal Veneto), che continuavano a operare in uno scenario caratterizzato da un eccessivo frazionamento della proprietà agraria e una scarsa specializzazione colturale.


La riconversione post-fillosserica degli anni Venti-Trenta del Novecento, avvenuta in un clima di depressione economica generale, segna una primordiale specializzazione del vigneto e un’intensificazione della coltivazione negli interfilari, cui si accompagna un miglioramento dei fabbricati rurali, l’introduzione delle concimazioni chimiche e le prime forme di meccanizzazione, con la comparsa delle trebbiatrici a vapore.


Fino agli anni Cinquanta del Novecento l’agricoltura collinare resta comunque ancorata a tecniche colturali tradizionali, con largo impiego di manodopera famigliare e della forza animale. È solo nel decennio successivo che si registra una progressiva meccanizzazione. In quegli anni cala anche la disponibilità di manodopera essendo i giovani attratti dall’industria torinese o altre occupazioni, in grado di garantire migliori e più sicuri salari. La conseguenza è il progressivo abbandono di terreni e prati a più elevata pendenza, dove non era possibile l’impiego delle macchine, e l’orientamento verso coltivazioni richiedenti meno lavoro manuale, fatto che comporta la riduzione della superficie vitata e la crescita degli incolti.


A metà Settecento a Cocconato la superficie agricola comprendeva 71 ettari di seminativi, 160 di  prati e pascoli, 404 di vigneti, 181 di boschi e 115 di gerbidi. La relazione generale dell’intendente di Asti, Giovan Francesco Balduini di Santa Maria, registra, nel 1750, una produzione di 260 carre da dieci brente di vino (130.000 litri), a cui si aggiungono 50 carre (25.000 litri) a Cocconito, all’epoca comune autonomo; la quantità prodotta non era tuttavia sufficiente al fabbisogno della popolazione che era stimato in 360 carre per Cocconato e 80 per Cocconito.


La superficie agraria nel 1892 (comprendente anche l’ex comune di Cocconito) risulta suddivisa in 300 ettari di seminativi, 150 di prati, 800 di vigneti, 450 di boschi.

Il 2° Censimento generale dell’agricoltura del 1970 registra la presenza di 456 aziende, di cui 24 con SAU oltre i 10 ettari  e una sola di oltre 20 ettari. Di queste 302 possedevano vigneti per una superficie di 149,50 ettari.

Dal successivo censimento del 1982 emerge un calo del numero di aziende del 28%, scese a 330. Di queste 87 avevano superficie inferiore a un ettaro, solamente 3 oltre i 10 ettari e 2 oltre i 20. Le aziende con viti sono 160, per una superficie di 76,23 ettari.

Nel 1990 il numero di aziende rimane stabile, pari a 320, di cui 53 senza SAU, 107 sotto l’ettaro, 11 oltre i 10 ettari e 2 oltre i 50. Le aziende con viti sono 116, per una superficie totale di 55,45 ettari.


Un’inversione di tendenza si manifesta solo alle soglie del nuovo Millennio, grazie alla capacità e al coraggio di alcuni imprenditori vitivinicoli locali che iniziano a impiantare estesi moderni vigneti, finalizzati alla produzione di vini di elevata qualità, con applicazione di tecniche colturali non più legale a consolidate consuetudini, ma dettate dalle più moderne indicazioni agronomiche.

Questo ha permesso un rilancio della viticoltura, in un momento in cui rischiava una forte contrazione, a causa della scomparsa dei molti vecchi agricoltori.  Oggi la superficie vitata è di circa 70 ettari, di cui circa 60 delle aziende vitivinicole e 10 di altri agricoltori.

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